LA TROTA
La Trota apre il sipario in un’ampia stanza piena di vecchi mobili e piatti rotti. La parete di fondo è coperta di pezzi di cartone ben ripiegato e calze da donna. In un angolo un vecchio cucinino. Da fuori arriva il vocio di un indaffarato e allegro via vai di persone. All’interno silenzio ed un uomo intento ad aggiustare alcuni dei piatti rotti sparsi per la scena.
Un impiego non remunerativo, inutile se non per passare il tempo.
L’isolamento in cui vive è talmente forte che l’unico possibile dialogo è con se stesso. Un monologo strampalato, fatto di domande assurde e risposte ancora più sconclusionate. Lo stesso fa con gli oggetti che lo circondano: li tratta con cura, si rivolge a loro come se avessero vita, e facendo così li anima, tanto da confondere realtà ed immaginario.
Questo spettacolo potrebbe essere racchiuso in una semplice equazione matematica: assenza di amore = morte. Eros e Thanatos come al solito faccia a faccia, secondo quanto afferma Freud parlando delle pulsioni sessuali: il bisogno di tenerezza dell’uomo è talmente forte da scatenare il desiderio di morire per un unico, estremo gesto d’amore. Non c’è possibilità di salvezza quando si è soli, e soprattutto quando ci si sente soli, che non è la stessa cosa. L’essere umano ha bisogno di interloquire per dire a se stesso di esistere.
Ecco allora che per quest’uomo , ignorato dal resto del mondo, una semplice trota può diventare il fulcro esistenziale per un uomo povero e dimenticato. La pièce si trova così ad affrontare il tema della solitudine, ma lo fa in modo assolutamente originale, unendo ad esso la tragedia della follia. La follia quindi fa da contorno al racconto di un giorno di ordinaria solitudine, che solo nel finale si fa fantastico e metaforico: l’uomo che voleva mangiare il pesce è, infine, mangiato da lui.
Il mondo folle e bizzarro dei malati di mente offre una grande opportunità: capovolgere il mondo reale.